Silvano Gallon
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Libri
(Le raccolte poetiche sono nella pagina "poesia")
Collana
In Itinere
la nostra storia, mini-memorie in A5 1/16°, 2015-2019
Collane
Nella pagina IPE
Della Comunità Italiana di Crimea
del Mar d'Azov e del Mar Nero
IPE Editore, marzo 2019
ISBN 978-88-903253-9-7
Tombe Militari Italiani in Macedonia
Seconda Guerra Mondiale
Campo 401 e altri cimiteri
IPE Editore, marzo 2019
ISBN 978-88-941449-3-2
Prima Guerra Mondiale
Campagna di Macedonia (1916/1919)
La Spedizione Italiana
IPE Editore, settembre 2017
ISBN 978-88-941449-1-8
Macedonia: la trincea lontana Un secolo fa terminava l’XI Battaglia dell’Isonzo, una delle più grandi e sanguinose battaglie dell’Esercito Italiano, ma come tutte le vicende della Grande
Guerra,
sembra che tale celebrazione sia
passata tra l’indifferenza generale del nostro Paese, sempre preso da
logorroiche e sterili diatribe interne. Non solo non si celebrano gli eventi, ma ci si ricorda anche assai poco di chi nelle trincee ha combattuto. Oltre a ricordarci dei soldati delle trincee dell’Isonzo (il nostro fronte più sanguinoso e combattuto), del saliente trentino e della linea di resistenza Piave-
Monte Grappa, non
dobbiamo dimenticare chi fu inviato a presidiare altri fronti: le
“trincee lontane”.
conquistare e difendere. Fu anche guerra di “missioni all’estero”, come si direbbe oggi: spedizioni militari in diversi teatri di operazione lontani dalla Madrepatria. Le Forze Armate (Esercito e Marina) furono impegnate nella 1a Guerra Mondiale su diversi fronti all’esterno del territorio nazionale, in teatri poco noti ma non per questo meno cruenti e meno importanti di quello italiano. Questi interventi ebbero luogo in un contesto che oggi chiameremmo multinazionale e si proponevano, come la spedizione piemontese nel XIX secolo in
Crimea, di
conseguire lo status di “potenza” internazionale alla pari delle altre
nazioni occidentali.
Tale
volontà politica portò i nostri soldati a operare fianco a fianco con i
commilitoni dei Paesi Alleati in:
- in Francia (1918), nei boschi di Bligny, in una delle pagine meno ricordate, meno note e paradossalmente più gloriose della storia dell’Esercito Italiano. Il II Corpo d’Armata riuscì a fermare l’ultima offensiva tedesca del conflitto. Fu un successo pagato a carissimo prezzo, con oltre un terzo delle perdite; - in Macedonia (1916-1919), con le nostre truppe impegnate a tenere il fronte tra Bitola (all’epoca Monastir) e il Mare Adriatico; - in Libia, dove si combatteva per difendere i centri abitati sulla costa, che non avevamo abbandonato, dalla guerriglia arabo-turca supportata dalla Germania; - in Estremo Oriente, con un corpo di spedizione in Cina (Tientsin) e successivamente sulle coste russe dell’Oceano Pacifico a combattere contro l’Armata Rossa
(1918-1920). richiesero una assidua azione diplomatica preventiva e una ferma determinazione da parte dei comandanti sul campo per evitare di essere considerati, e di conseguenza trattati, come semplici comparse o gregari cui affidare compiti secondari privi di valore strategico ai fini della condotta della campagna
militare. campo. Ora come allora, infatti, in talune situazioni la presenza italiana era osteggiata
per evitare che il nostro impegno
potesse interferire sui disegni futuri di riassetto delle regioni
interessate.
articolato - tatticamente e logisticamente - Corpo di Spedizione incentrato sulla 35a Divisione di Fanteria. Il contingente, ancorché di livello divisionale per quel che riguarda le gerarchie di comando, aveva effettivi superiori a quelli di un Corpo d’Armata
e, relativamente allo scacchiere su
cui combatteva, aveva un’importanza eguale a quella di un’Armata.
necessario comunque sia a tenere impegnate consistenti truppe germaniche, bulgare e austro-ungariche sia ad evitare la calata degli eserciti avversari su Salonicco, e consentire il collegamento terrestre con l’Impero Ottomano, sia ad impedire che la Grecia entrasse nella sfera d’influenza tedesca,
andando inoltre incontro a
un’ulteriore perdita di prestigio dopo il fallimento dello sbarco ai
Dardanelli (1915).
con la richiesta d’armistizio della
Bulgaria che consentì alle unità dell’Intesa di dilagare nei Balcani.
“Per l’Intesa la campagna dei Balcani fu una specie di pozzo senza fondo, destinato ad assorbire per tre anni ingenti forze militari condannate all’inattività. Eppure alla fine questo ‘pozzo senza fondo’ avrebbe finito col traboccare, spazzando via uno dei puntelli degli Imperi Centrali” . Liddel Hart continua in questo modo: “Ma prima che tale offensiva (sul fronte occidentale) potesse svilupparsi, nei Balcani si verificò un evento che, se-condo le parole di Ludendorff, ‘ decise la sorte della Quadruplice alleanza’. Fino a quel momento egli aveva sperato di resistere saldamente sulle solide linee difensive del fronte occidentale,
ripiegando gradualmente su linee
nuove qualora la situazione l’avesse imposto, avendo i fianchi
strategici in Macedonia e in Italia coperti…”
probabilmente apprenderebbe con un certo stupore di aver combattuto su un “fronte secondario”. L’intensità degli scontri fu del tutto simile a quello dei “fronti principali”. Unitamente alle armi quali i fucili, le baionette, le mazze ferrate e perfino le corazze, insieme ai classici mezzi di trasporto come i muli e i cavalli, alle cariche di cavalleria, scesero in campo armi e tecnologie sempre più potenti e sempre più spietate:
la mitragliatrice, il lanciafiamme
e le artiglierie, fino ad arrivare all’arma forse più spaventosa di
tutte: i gas.
del Regio Esercito: alpini, fanti, bersaglieri, cavalieri, artiglieri, aviatori, genieri, soldati dei servizi logistici,
che combatterono alla pari, gomito
a gomito, con francesi, britannici, serbi, russi e greci.
paludosa e malsana nella parte bassa, aspra e priva di ogni comodità in quella montana. Il clima era torrido d’estate e glaciale d’inverno.
Il nemico dominava la linea del
fronte dall’alto delle quote e poteva riversare su di essa il fuoco
delle sue artiglierie, talvolta con l’uso di aggressivi chimici. Si ripeterono anche qui gli scenari della guerra di posizione, con l’aggravante della distanza dall’Italia e dell’insufficienza dei mezzi e delle vie di trasporto. Ciononostante i soldati italiani sopportarono gli inconvenienti e i disagi con encomiabile stoicismo. Circondati da un alone quasi leggendario divennero i combattimenti per la conquista delle posizioni di quota 1050 e del Piton Brûlé,
che nulla ebbero da invidiare con
quelli sull’Isonzo, sul Carso o sugli Altipiani.
50.000 uomini: materiale ferroviario costituito da 10 locomotive, 16 bagagliai e 150 vagoni; 10.000 quadrupedi; 500 automezzi; 5 ospedali da campo per una capacità di 5.000 posti letto. La partecipazione italiana alla Campagna di Macedonia, nella vasta letteratura riguardante la 1a Guerra Mondiale, è stata oggetto di numerose pubblicazioni, quasi tutte risalenti tuttavia al periodo successivo al conflitto ed ora, di conseguenza, poco conosciute e non
facilmente reperibili.
attraverso una narrazione lineare ed efficace e ben documentata che fa
ricordare eventi oramai dimenticati.
caratterizzata da una propria storia, tradizioni e cultura, che per decenni ha lottato e sofferto per il principio di uno Stato libero e indipendente,
dando origine a livello
internazionale, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo,
alla cosiddetta “questione macedone”.
italiane e ai molti nostri Caduti in terra straniera sui quali è calato spesso un ingiusto e immemore silenzio,
come se
questi ragazzi non fossero stati Soldati che hanno combattuto e sono
morti per l’Italia! Lo studio della propria Storia è oggi più che mai doveroso, visto che la Storia sta bussando - si vedano le vicende libiche e siriane - sempre più insistentemente alle porte del nostro Paese!
( dall'Introduzione del
Generale
di Corpo d’Armata (Aus.)
Padre Cesare Tondini De' Quarenghi
Missionario in Croazia
Pastore in Serbia tra gli italiani operai delle ferrovie
con la fondazione delle prime missioni cattoliche
(1881-1885)
IPE Editore, luglio 2013
ISBN 978-88-903253-7-3
Dopo lunghe e circostanziate ricerche svolte anche in Serbia
– coronate da non poche precedenti pubblicazioni sul p. Cesare M. Tondini de’ Quarenghi (1839-1907) –
la nuova fatica di Silvano Gallon, dedicata al barnabita “missionario-pellegrino” in Croazia nel periodo che va dal 1881 al 1885,
aiuta a tenere desto l’interesse su una delle figure ecumeniche più significative del XX secolo:
apripista di quella nuova evangelizzazione del continente europeo
che seppe trovare in Maria Immacolata il suo punto di appoggio ideale tra Chiesa d’Oriente e d’Occidente.
Benché inizialmente pensata per la ricorrenza del 100° anniversario della sua morte (1907-2007) , la pubblicazione che viene ora alla luce
provvidenzialmente accompagna la realizzazione di un comune desiderio evocato proprio in quella circostanza dal p. Enrico Sironi:
“Perché il ricordo della vita esemplare e del carisma del p. Cesare M. Tondini, vero apostolo dell’ecumenismo ante litteram,
continui a vivere e non si limiti soltanto alle celebrazioni commemorative,
come quella della sua morte, non potrebbe nascere nella sua Lodi, nella magnifica chiesa di s. Francesco,
nella quale ha celebrato la sua prima Messa offrendosi ‘vittima’ per la causa dell’unità dei cristiani,
un gruppo stabile di preghiera per la stessa causa e un centro di studi ecumenici a lui dedicato?
Utinam! Anche lo spirito del p. Tondini esulterebbe!
E le sue spoglie, sepolte nel cimitero romano di S. Lorenzo al Verano,
non potrebbero essere trasferite a Lodi per riposare nella chiesa di S. Francesco,
ad esempio nella cappella dedicata all’Immacolata, ai suoi piedi?
In un certo senso si avvererebbe così un suo sogno,
il ripetuto desiderio espresso in una preghiera alla Vergine al rientro dalla sofferta esperienza russa a Pietroburgo,
come risulta dal suo diario:
“Maria santissima, mia tenera Madre , io vi voglio conservare questo corpo puro ed immacolato , perché sia degno sgabello dei vostri santissimi piedi per tutta l’eternità”.
Il richiamo alla riscoperta dell’ecumenismo a livello locale e a viverlo concretamente in un costruttivo rapporto di comunione,
con generosa dedizione, seguendo l’esempio del nostro illustre confratello,
sarebbe più evidente, eloquente e stimolante, e non solo a Lodi”.
(dall'Introduzione di Padre Filippo Lovison, B.)
Presentato a Ceccano nell'auditorium della Biblioteca Comunale (5 ottobre 2013) Dopo l'introduzione del Presidente dell'Associazione Culturale Fabraterna, Ennio Serra
Sono intervenuti il Sindaco della città, Avv. Manuela Maliziola, e Mons. Franco Quattociocchi
L'autore ha approfondito la peculiarità della missione e la condizione degli operai italiani e cattolici
Interventi sono stati effettuati dal Prof. Carlo Cristofanilli, dal poeta Gezim Haydari, da Tommaso Bartoli e dal prof. Giovanni Ruspandini
Il Sindaco di Ceccano Manuela Maliziola, i relatori Mons,. Franco Quattrociocchi e Ennio Serra, il Consigliere Giulio Conti
Il Sindaco di Ceccano Manuela Maliziola, i relatori Mons,. Franco Quattrociocchi e Ennio Serra
l'intervento di Gezim Haydari, la sala ed alcuni ospiti
LA PARROCCHIA DI
SAN PIETRO APOSTOLO IN CECCANO
IPE Editore, 2012
ISBN 978-88-903253-5-9
“ Resurgit suis e cineribus” e “ succisa virescit” sono i due logo usati dai monaci di Montecassino per ricordare le distruzioni e le ricostruzioni
subite nel corso dei secoli dalla loro abbazia, più volte distrutta e più volte ricostruita sempre più bella.
Questi due motti si possono, a ben ragione, riferire anche alle vicende della chiesa di S. Pietro in Ceccano.
La venerazione per la figura di S. Pietro e il suo culto nel Lazio meridionale risale ad epoca molto remota, anche se è alquanto dubbia la
presenza dell’apostolo nelle nostre contrade, presenza peraltro ribadita da una tenace e lunga tradizione.
Sappiamo che le prime comunità cristiane cercavano di nobilitare le loro chiese dedicandole al Battista, alla Vergine e ai vari apostoli.
In Ceccano il primitivo edificio sacro dedicato a S. Pietro sorse alle “ tartare”, un territorio al confine con Patrica, lungo un diverticolo della Via
Latina (attuale Morolense) “ iuxta viam silicatam”, cioè su una strada romana pavimentata con pietra silicea. Di questo posto resta ancor oggi il
toponimo “ Fontana S. Pietro”, fonte posta dopo le quattro strade di Patrica, dove si possono ancora scorgere avanzi di epoca romana.
Questa antichissima chiesa subì la distruzione prima del Mille e venne abbandonata. Si costruì una nuova chiesa, questa volta dentro Ceccano
sui limiti delle mura preromane e prese il nome di S. Pietro in Iscleta e fece parte del patrimonio dell’abbazia di Montecassino.
L’Autore, dopo aver narrato le vicende del Santo, ricostruendone la vita e le opere, si sofferma anche a narrare le vicissitudini di queste due
chiese, in maniera chiara ed esaustiva.
A questo punto va fatta una considerazione storica importante: tra tutte le chiese di Ceccano, la più antica è quella dedicata a S. Giovanni Battista
“ chiesa madre”, poggiante su mura volsche. La chiesa di S. Giovanni è stata fino alla metà del Settecento, l’unica parrocchia dove era presente il
fonte battesimale e che dopo il concilio tridentino vennero compilati i registri di battesimo, cresima, comunione e dei morti.
Accresciuta la popolazione nel medesimo periodo vennero erette le parrocchie di S. Nicola e di S. Pietro che per l’occasione venne ampliata
demolendo la chiesa medievale.
Distrutta la chiesa di S. Pietro a causa degli eventi bellici del secondo conflitto mondiale, mons. Tommaso Leonetti, uno dei più illustri vescovi
della diocesi di Ferentino, noto per la sua umanità e cultura, decise di farla ricostruire in campagna, su un terreno donato dal sacerdote ceccanese
don Lorenzo Capoccetta, allora parroco della chiesa di S. Valentino in Ferentino.
L’Autore, con dovizia di particolari, ci descrive le prime vicende della nuova parrocchia, soffermandosi via via a farci conoscere i vari parroci.
Un capitolo particolare viene dedicato alle suore missionarie dell’Immacolata Regina della Pace, che per un anno hanno operato nella parrocchia.
Viene altresì descritta la vita parrocchiale nel suo complesso e le varie cappelle che nel corso degli anni sono sorte nel suo territorio.
Una particolare descrizione viene fatta per la chiesa cinquecentesca della Madonna di Loreto, chiamata volgarmente S. Rocco.
Si parla anche del Priorato di S. Angelo, retto dalle monache benedettine di clausura provenienti dal monastero di Boville Ernica e che per circa
venticinque anni hanno operato nel piccolo e moderno monastero di Colle S. Paolo.
Il libro contiene anche varie schede concernenti la storia civile e religiosa di Ceccano, il tutto illustrato con appropriate fotografie.
Nel solennizzare il primo giubileo della ricostruita nuova chiesa di S. Pietro, l’Autore ha regalato alla sua parrocchia il dono più bello, con la
consapevolezza che nello scrivere le memorie di una comunità è far conoscere a coloro che verranno le genuine radici della loro civiltà, per un
futuro migliore. Un plauso all’emerito parroco don Giuseppe Rivaroli, a don Shaju Thomas (Sebastian) Chirayath, attuale amministratore ed a tutti
coloro che hanno sostenuto e sosterranno questa preziosa opera e a Silvano un grande ad maiora". (Presentazione del Prof. Carlo Cristofanilli)
Presentato a Ceccano nella Chiesa di San Pietro Apostolo il 25 febbraio 2012
con gli interventi del Prof. Carlo Cristofanilli e del Prof. Don Giuseppe Rivaroli, parroco emerito
Il prof. Cristofanilli ha documentato agli intervenuti le notizie storiche concernenti il viaggio di San Pietro a Roma e la sua eventuale presenza nelle
nostre terre; ha inoltre esposto le vicende che hanno caratterizzato la chiesa di S. Pietro Apostolo nell’arco dei due millenni
Il parroco emerito Don Giuseppe, ha ripercorso la vita parrocchiale in questo cinquantennio, che egli ha vissuto quasi per intero, soffermandosi su
alcuni riflessioni particolari insistendo, argomento a lui particolarmente caro, sulla misericordia e sulla carità.
Sono intervenuti l’assessore Giulio Conti del Comune di Ceccano e Antonio Ciotoli quale rappresentante del Consiglio Pastorale.
L’autore, chiudendo l’incontro, ha messo in risalto l’importanza della parrocchia e della vita parrocchiale, necessaria per tenere unita e credente la
comunità in un tempo di grandi distrazioni, ed ha insistito sull’importanza del movimento laico, che, all’occorrenza e nella necessità, sempre
all’interno della parrocchia e con il parroco, deve impegnarsi con vera
testimonianza nella diffusione del messaggio di Cristo, soprattutto nelle cappelle di campagna a cui ha voluto dedicare un momento particolare di
riflessione. I tanti parrocchiani hanno dato una gioia immensa all’autore che ha rivolto loro una sentito e commosso sentimento di gratitudine,
ed al loro parroco emerito Don Giuseppe col quale hanno voluto condividere momenti di commozione, stringendosi attorno a lui che ha segnato
numerosi autografi con grande testimonianza di affetto verso di loro.
Tra i presenti, oltre ai rappresentanti della cultura locale prof. Giovanni Ruspandini e Tommaso Bartoli, alcuni funzionari del Comune di Ceccano,
rappresentanti di associazioni culturali e studiosi ed artisti amici dell’autore sia della Provincia di Frosinone che di Roma.
Ceccano, 29 giugno 2012: Il Parroco emerito di S. Pietro Apostolo, Don Giuseppe Rivaroli,
mi ha consegnato questa bellissima targa-ricordo
"per il meraviglioso libro scritto sulla storia dei 50 anni della Parrocchia di San Pietro Apostolo in Ceccano":
nella foto Silvano Gallon e Don Giuseppe Rivaroli
MAKEDONSKI FRONT
La campagna italiana di Macedonia (1916-1919)
Associazione d’amicizia macedone-italiana Bitola
Bitola (Rep. Macedonia), 2008
ISBN 9989-9984 -4-2
Presentato a Bitola presso la Casa della Cultura dal Prof. Gorgi Tankovsi (agosto 2007)
Il prof. Kiril Dobrusevski con il Prof. Tankovski ed il collega Gianni Grillo
Rapporti politici dei Regi Consoli d'Italia a Monastir
(1895-1916)
Associazione d’amicizia macedone-italiana Bitola
Bitola (Rep. Macedonia), 2004
ISBN 9989-9984-2-6
Presentato all'Università di Skopje - Facoltà di Filologia Blaze Koneski - nell'ambito della "Settimana della Lingua Italiana" il 18 ottobre 2004
dall'Ambasciatore d'Italia a Skopje, Giorgio Marini,
dall'Ambasciatore della Repubblica di Macedonia Viktor Gaber,
dal Vice Ministro alla Cultura Melpomeni Korneti.
"Abbiamo davanti a noi una storia molto ben documentata sulle relazioni e sulla situazione nel vilaiet di Bitola relativa al periodo che va dal 1895 al
1916, storia impressa nei rapporti e nei commenti stesi da parte dei funzionari del Consolato italiano a Bitola. I rapporti degli otto rappresentanti
ufficiali dell'Italia in Bitola, nonché di quelli in Salonicco, in Istanbul e in Skopje, menzionati nel presente libro, rappresentano un materiale storico
di immensa ricchezza utilissima ai futuri ricercatori di questo periodo di svolta, caratterizzato da una definitiva pesa di coscienza nella popolazione
macedone riguardo alla sua indipendenza e riguardo all'instaurazione di una sua autorità governativa. Certamente, dai rapporti trapela anche la
posizione dell'Italia ufficiale nei
confronti degli avvenimenti nell'area balcanica, conseguenza della disgregazione dell'Impero ottomano, delle fortissime propagande straniere in
Macedonia, delle agitazioni della popolazione locale che cercava di contrastarne le influenze, degli avvenimenti durante il periodo delle prime
esperienze democratiche
in Turchia in seguito all'Uriet nonché dei preparativi per le guerre che contrassegneranno la distruzione della compattezza del territorio della
Macedonia. La sistematicità del testo, frutto del meticoloso lavoro del Signor Silvano Gallon, sincero amico della Macedonia, ci permette di avere
un'idea chiara sulle attività ininterrotte dei consoli italiani a Bitola attraverso i loro "aggiornamenti" quotidiani sugli avvenimenti in questa parte
dei Balcani, cioè l'impegno dei consoli a inviare informazioni oggettive ai loro superiori di Roma. Parte dei rapporti ci permettono di capire anche
l'influenza che loro hanno avuto sulla creazione della politica ufficiale nei confronti della Macedonia, che avrà i suoi momenti salienti alla
conferenza di pace di Versailles, quando la
delegazione italiana, alla 33-esima seduta del Comitato con l'ordine del
giorno "i nuovi stati" tenutasi al 1° luglio 1919, chiede che
diventi "un'entità autonoma distinta, con diritto al potere legislativo nel campo della lingua, del istruzione, della religione e nelle questioni
riguardanti l'amministrazione
locale". Sono di particolare valore i capitoli che trattano la lotta delle propagande dei popoli confinanti per il predominio nel campo dell'istruzione
e della chiesa ortodossa in macedonia in quel periodo, cioè le analisi svolte dai consoli italiani sull'influenza delle attività militari delle squadre di
combattenti che lottavano contro il potere ottomano nonché sulle loro lotte interne. Attraverso queste righe, in una maniera veramente illustrativa,
viene rappresentata la situazione difficile e drammatica nella quale si trovava il popolo macedone, che in quel periodo produceva i primi sforzi
bellici più significativi per la sua indipendenza e per la creazione di un proprio Stato. Si tratta di un periodo durante il aule none esisteva un clima
internazionale favorevole per une sito positivo di tali attività.
Nel suo tentativo di spiegare meglio le condizioni storiche nelle quali si trovavano il vilaiet di Bitola e i suoi 5 Sangiaccati, Silvano Gallon dai
rapporti dei consoli italiani estrapola e cita le analisi più significative sulla situazione nella quale si trovava l'Impero Ottomano in quel periodo, e
per farci avere un'idea più chiara sulle situazioni turbolenti cita dati (ufficiali, oppure raccolti direttamente nel consolato italiano) sulla struttura
religiosa e quella nazionale della
popolazione. Da lì si possono trarre delle conclusioni che le statistiche che si facevano riguardavano prevalentemente l'appartenenza religiosa
della popolazione. E' interessante che i consoli non abbiano trascurato il fatto che tutte le propagande cercavano, in continuazione, di sottolineare
il "proprio" predominio, così nel commento sulle attività delle suddette propagande puntano sul fatto che gli Sloveni in questo vilaiet non si
sentivano "né bulgari né serbi". Ai lettori contemporanei, leggendo le analisi dei rapporti, non sfugge la conclusione che il tema sul quale si
soffermano i rapporti è la descrizione dettagliata della situazione nella quale si trovavano i valacchi nel vilaiet di Bitola, in quel periodo talmente
travagliato. Questa descrizione dettagliata è in parte dovuta alla presenza permanente del dragomanno (traduttore, più esattamente interprete)
Michele, cioè Mihali Pinetta nel Consolato italiano a alle sue attività. Questo dragomanno, grazie alle sue origini valacche, ma anche grazie
all'ottima conoscenza della lingua francese e di tutte le lingue locali, aveva accesso diretto alle informazioni che provenivano dalla popolazione
locale. Per un certo periodo lui stesso ha mandato rapporti ai suoi superiori italiani.
E' indubbio il valore di questa opera anche per il atto che tratta i rapporti autentici stesi dai rappresentanti ufficiali dell'Impero ottomano di allora.
Il lettore avrà l'opportunità di conoscere i problemi che i rappresentanti ufficiali provvisori dei paesi stranieri nella Macedonia ottomana dovevano
affrontare certe volte vista la brevità della loro presenza in questo paese. Ma ciò in alcun modo non diminuisce il valore di questi documenti e dei
commenti sulla storia della Macedonia nonché dell'area confinante.
La lettura dei suddetti rapporti permette ai lettori in macedonia di capire meglio gli eventi storici e le situazioni che erano all'origine di alcuni
fenomeni di importanza cruciale alla formazione dell'idea presso i macedoni di liberarsi dal soggiogo turco di essere così fautori del proprio
destino. Allo stesso tempo, ogni amante della storia anche in Macedonia potrà completare le proprie conoscenze su un'epoca piena di malanni,
epoca del crollo
del dominio della Porta che durò cinque secoli nella parte sud-occidentale dei balcani, potrà altresì capire meglio i numerosi rapporti socio-
economici, interetnici e politici che hanno contribuito alla caduta di un sistema, e allo stesso tempo ad un interventismo di massa delle monarchie
dei paesi confinanti per l'attuazione delle proprie cause nazionali, senza tener conto dei desideri e dei bisogni della popolazione locale. Credete
che in questo suo terzo sforzo immenso atto a documentare la presenza ufficiale dell'Italia in macedonia nel passaggio dal XIX al XX sec sia finita la
serie di Silvano
Gallon
"Gli Italiani e l'Italia e il
rapporto con i Macedoni e con
Seguendo il suo lavoro, in qualità di console italiano a Skopje, durato più di cinque anni (tra 1996 e 2001) e le ricerche successive che il Signor
Gallon ha così egregiamente compiuto e le quali hanno dato come frutto due opere, non credo che il suo interesse si fermi lì, anzi, sono convinto
che
continuerà le sue ricerche per
approfondire ancora di più i rapporti tra l'Italia e gli Italiani e
confronti della Macedonia e dei Macedoni, espresso anche nelle pagine che seguono, fa sicuramente parte dell'interesse più ampio e continuo
dell'Italia e dei suoi ambienti ufficiali ed intellettuali per i Balcani, suoi vicini di casa, più stabili e prosperi.
Opere di questo genere rappresentano un contributo storico-culturale importantissimo all'avvicinamento dei popoli, alla conoscenza delle loro
vicissitudini, all'arricchimento della collaborazione, della solidarietà e del reciproco rispetto, ed è proprio per questo motivo che ci sentiamo in
dovere di esprimere all'autore Silvano Gallon i nostri più sinceri riconoscimenti"
(Viktor Gaber, già Ambasciatore della Repubblica di Macedonia a Roma, Ambasciatore in Australia)
Skopje, 20 ottobre 2004
Il Magnifico Rettore dell'Università di Skopje, Prof. Gorgi Martinovski, l'Editore Kiril Dobrusevski e S.E. Kire Stojanov
Presentato a Bitola
nella Casa della Cultura dall'Associazione di amicizia macedone-italiana
e dalla Associazione delle scienze di Bitola il 20 ottobre 2004
"Sono convinto che tutti insieme condividiamo i piacevoli sentimenti che possiamo incontrandoci di nuovo, qui da noi, con un vero amico della
Macedonia, Signor Silvano Gallon, autore di questo significativo lavoro storico sull'argomento dei rapporti macedoni-italiani.
Per gli storiografi macedoni, anzi, in generale, per la scienza storica macedone, i documenti presentati nel libro "Rapporti politici dei Regi Consoli
d'Italia a Monastir (1895/1916)" di Gallon hanno un significato plurivalente e spingono, cioè devono spingere, non solo gli uomini della scienza, ma
anche i politici affinché ricavino vive conclusioni e istruzioni. Alla storia non si deve essere servaggio, ma da essa si deve imparare, la storia di deve
conoscere, analizzare perché non si facciano errori strategici e imperdonabili.
Quando si legge questo libro, che per i documenti che riporta, è molto importante, il lettore si trasferirà, nell'epoca della fine del secolo XIX° ed
all'inizio del secolo XX°, in Macedonia. Allora rileverà il gioco perfido dell'Impero ottomano nel conservare il suo potere fragile, si vedranno le
manipolazioni con la propaganda degli stati vicini, abusando nella religione e nell'istruzione. L'Amministrazione turca agli uni chiedeva di
mantenere lo status quo e agli altri che si realizzasse la conquista del territorio nazionale macedone.
Ringraziamo sinceramente Silvano Gallon - onesto scienziato e diplomatico italiano - per la possibilità che con questo libro ci ha dato, anche tramite
i documenti dell'archivio diplomatico italiano, di osservare la realtà dello spinoso cammino macedone e della sua lotta per uno stato autonomo."
(Prof. Gorgi Tankovski, Bitola 20 ottobre 2004)
"Siccome mi occupo della storia militare il Suo libro ha suscitato un grande interesse in me. dal punto di vista del contenuto tratta il periodo più
tumultuoso della storia più recente della Macedonia. Nel periodo tra il 1895 e il 1916 sul territorio della Macedonia scoppiarono ben quattro
importanti insurrezioni (quelli di Melnik nel 1895, di Gorna Dzumaja nel 1902, di Ilinden nel 1903 e poi quella dei Giovani Turchi nel 1908) due
Guerre
Balcaniche e
dei consoli italiani sono molto obbiettivi, e aiutano moltissimo ad avere un'idea molto chiara sulla reale situazione economica, sociale e politica ma
soprattutto quella militare nella Macedonia di allora.
Personalmente ho trovato interessantissimi i rapporti concernenti il periodo dell'insurrezione di Ilinden fino alla Prima guerra balcanica, cioè dal
1903 al 1912
perché
dei consoli italiani, si può trarre la conclusione che tutte le decisioni venivano prese a Belgrado, Sofia, Atene e Istanbul mentre le lotte interne
straziavano la popolazione macedone. Sono più che convinto che nelle mie ricerche successive e nel mio lavoro con gli studenti il Suo libro sarà per
me una delle fonti principali di dati e di informazioni.
Gentile Signor Gallon, avendo avuto l'occasione di leggere il Suo ultimo libro mi auguro che Lei continui a lavorare su questa problematica perché
con tutti i Suoi libri ha dato un preziosissimo contributo allo viluppo della scienza nonché alla conoscenza reciproca e l'avvicinamento dei nostri due popoli.
Auguro a Lei e alla Sua famiglia tanta salite e felicità:
Prof. Dott. in sci. Vance Stojcev, Accademia Militare "General Mihajlo Aposoloski", Skopje."
IL CONSOLATO D'ITALIA A BITOLA
Associazione d’amicizia macedone-italiana Bitola - Bitola (Rep. Macedonia), 2001
ISBN 9989-9984-2-6
Nel mondo delle rappresentanze italiane all’estero – almeno alla luce della mia esperienza – di vocazioni autentiche ne ho incontrate poche.
Forse succede lastessa cosa anche per le rappresentanze di altri paesi, ma non è questa, eventualmente, una consolazione. Forse vocazioni familiari
indotte – e sono i casi migliori -; per lo più scelte di stato, se non di comodo, falsi bagliori, un’ottima “sistemazione” per i più. Il che non vuol affatto
essere un giudizio di valore e neppure una valutazione di professionalità: sarebbe una superficialità imperdonabile da parte mia. Ne proverei
vergogna. La professionalità è spesso di buon livello, almeno come essa appare ad una esperienza vissuta tutta la vita con sincerità d’intenti ma con
scarsissimi mezzi di giudizio. La cosiddetta buona volontà è più degna di rispetto, ma è anche rischiosissima, e gli errori sono ad ogni angolo di
strada. Mi riferisco perciò soltanto ad una dimensione morale quale è appunto la “vocazione”.
Non so per quali ragioni Silvano Gallon si sia inserito in questo mondo che l’ha portato ai quattro angoli del globo terrestre. Escluderei subito il
guadagno e l’avventura nel significato più esteso del termine: l’avventura che lo possiede è solo quella dello spirito: quella religiosa, quella
dell’amicizia, quella della cultura per esempio, e quest’ultima vista sempre inquadrata nelle istituzioni, quindi assai poco avventurosa. La gloria?
“Ohimé, la gloria: un corridoio basso, tre ceste, un canterano dell’impero, la brutta effigie incorniciata in nero e sotto il nome di Torquato Tasso”. Ce
l’ha insegnato, fin troppo impietosamente, Guido Gozzano. Non so se Gallon ha letto i Colloqui, ma sono certo che su questo tema non c’è incanto.
Niente gloria, quindi. Potremmo continuare in questo gioco ad excludendum, ma è un gioco senza divertimento.
Vocazione allora? Non conosco la storia intima di Silvano Gallon per individuare una scelta vocazionale fino alle origini della sua professione; ma,
oggi, direi proprio di sì: in quel che fa e nel modo in cui lo fa è facile avvertire una consapevole risposta vocazionale. Il dato, il fatto, l’evento, la
situazione – non importa se modesta – nel momento stesso in cui viene acquisita si trasforma in un impegno, si trasfigura in una responsabilità che
non è soltanto morale e tanto meno soltanto professionale o tecnica: vale a dire di mestiere, o – se la parola ci sembra troppo rozza dimenticando
che deriva da magister – di competenza. La competenza da sola proprio non basta. Fare è per lui testimoniare, cioè un atto etico-religioso. Gli
orizzonti s’allargano.In tanta vastità – e chi può misurare l’immensità dello spirito? – Silvano Gallon privilegia la testimonianza in situazione, vale a
dire – sciogliendo l’espressione troppo gergalmente filosofica – la testimonianza dell’uomo nella situazione storica concreta, a volte minuta, in cui
la storia getta o colloca ciascuno di noi come ha fatto nel volume precedente (1941-1943 – Gli italiani in Macedonia, del 1999), o si va a gettare o a
collocare come in quest’ultimo saggio sul Consolato d’Italia a Bitola.
Due aspetti vanno tenuti presenti nel leggere questo libro; due aspetti che però si implicano strettamente: la vocazione e la professione. Per Silvano
Gallon la storia, che è poi l’ambito di senso della nostra vita, è fortemente istituzionalizzata: l’abbiamo già detto. Per lui l’istituzione è la forma
necessaria della storicizzazione e quindi anche del giudizio. E poiché la professione l’ha inserito nelle istituzioni delle nostre rappresentanze
all’estero, è nel quadro di tali istituzioni che diventano per lui significative le testimonianze. Ma egli attualmente lavora in Macedonia: è in questo
piccolo ambito, quindi, che va verificata la sua vocazione com’essa si può realizzare nell’arco storico di neppure mezzo secolo ed in un orizzonte
modesto quale può essere un consolato periferico di un agonizzante Impero ottomano prima, di Jugoslavia poi. Solo le tensioni politiche e le guerre
possono generare un brivido di interesse. Abbiamo di proposito limitato il campo di indagine perché vogliamo scindere nettamente l’oggettività
storica dall’impegno vocazionale di Silvano Gallon......
........Ma all’8 settembre del ’43 con l’esercito italiano si dissolve anche il Consolato di Bitola. I gesti dell’ultimo console Castellani, nonostante lo
sforzo commovente di Silvano Gallon di vestirli di umana, nobilissima dignità, non vanno al di là, appunto, della umana condivisione: né
eccezionale né eroica, anzi abbastanza consueta in tempi dove qualche opera di carità, imparata da bambini al catechismo, diventa condizione
inevitabile per salvare l’anima. Ma è proprio qui, quando la critica storica – almeno la mia – forse un po’ troppo severa, sembra lasciare
impietosamente un’unica curiosità (ma chi era questo dragomanno-interprete-amministratore Michele Pinetta che reggerà il consolato di Bitola
durante le molte e prolungate vacanze consolari e che sembrerebbe aver curato gli affari del consolato con tale prestigio da comunicare
direttamente con ambasciatori e ministri ed al quale due grandi paesi, come l’Inghilterra e gli Stati Uniti d’America, in un’occasione gli affideranno
anche l’amministrazione delle loro rappresentanze? Non meriterebbe se non una monografia, almeno un’accurata ricerca da condensare in un
saggetto o almeno in un articolo da pubblicare sul Dante che Silvano Gallon dirige con tanta cura e successo per la comunità italiana in Macedonia e
per tutti gli italofili sempre più numerosi, proprio grazie a lui, in questo paese?), è proprio a
questo punto che emerge la vocazione di Silvano Gallon che ti forza ad avvertire la storia anche secondo le sue prospettive: una storia fatta di
istituzioni delle quali egli sa cogliere gli aspetti positivi anche nei momenti apparentemente più deserti di interesse e di valore, vissuta da uomini
ognuno dei quali porta il suo contributo di umana validità. .....
.....In mancanza di una prospettiva critica, Silvano Gallon raccoglie pietosamente piccoli fatti di piccoli uomini, ma li accoglie e sistema con tanta
commovente pietas che la sua sofferta sincerità finisce per trascinare il lettore alla condivisione anche intellettuale, alla partecipazione ad un
ethos anche professionale che trasfigura la cronaca tanto appassionatamente e soffertamente ricostruita.
E’ recentemente apparso uno splendido volume sulle Ambassades de France. Il ministro degli esteri Hubert Védrine con una solennità, dovuta alla
funzione, che in un caso così fastoso veramente oblige, si dichiara, e giustamente seduit, da un così bel libro che propone al godimento di tutti le
ricchezze d’arte e di cultura che
contingences de l’histoire”, e del “refus du nivellement et de l’uniformité”. Ma la prefazione spiritosissima di Catherine Clément ha ben altro
linguaggio ed un ben più disinvolto atteggiamento. Un’ambasciata? “Drole d’institution! Officielle, désuète, oisive, superbe, inutile”: sono tanti
punti di vista. Da chiudere
allora? Stia sereno Silvano Gallon: c’est à
voir. La prospettiva che più seduce
Un’ambasciata come scena di un teatrino sulla quale gli attori
recitano, più o meno bene, la loro parte: il faut plaire. Ed è un’arte difficile perché si conosce il copione in anticipo. Ma – è qui la svolta – éblouir
n’est pas bluffer: nell’arte di saper piacere in quest’ambito così suggestivo è doveroso scoprire una dignità umana e culturale, un’impegno
spirituale di altissima nobiltà: la pace realizzata attraverso il primato della parola detta o scritta, anzi soprattutto scritta, sul fragore delle armi,
sulla violenza delle infiammate passioni. Non deriva infatti “diplomatico” da “diploma”, gli atti ufficiali che le cancellerie dei vari stati si son sempre
scambiati per risolvere se possibile pacificamente le loro controversie, il loro – nonostante tutto – sogno di pace? Se teatro è, sia; ma il copione che i
diplomatici recitano sulla scena merita la gratitudine della civiltà del mondo. Sempre e tutti? Questo è il problema. Personalmente direi di si:
incarnano comunque – non importa quindi se inadeguatamente – la più rischiosa delle professioni o meglio il più avventuroso dei sogni: la
speranza della storia"
(Prof. Italo Bertoni, Ordinario di Filosofia
morale Facoltà di Lettere, Università di Genova , Skopje, Natale 2000)
Presentato a Bitola nella Casa della Cultura il 22 giugno 2001 dall'Associazione d'amicizia macedone-italiana e dalla Società delle Scienze e delle Arti .
Il Prof. Italo Bertoni, il prof. Kiril Dobrusevski, il prof. Gorgi Tankovski ed il Direttore della Kiro Dandaro
Presentato a Skopje presso
il 25 giugno 2001 dalla Società Dante Alighieri,
dal Centro Culturale Italiano di Macedonia
dalla Biblioteca Comunale di Skopje F.lli Miladinovci
1941-1943: ITALIANI in MACEDONIA
Società Dante Alighieri
Centro Culturale Italiano di Macedonia
Skopje (Rep. Macedonia), 1999
ISBN 9989-9552-3-9
Premio Internazionale Emigrazione (Pratola Peligna, 2001)
Medaglia d'oro
"Un periodo breve della nostra storia recente, solo due anni, ma in una fase della storia europea e mondiale cruciale e poco conosciuta. Silvano
Gallon punta la sua indagine sulla condizione degli italiani in Macedonia in una stagione in cui tutta l'Europa, e non solo, è in fiamme per i bagliori
della guerra.Non c'è la pretesa di costruire un libro di storia con il carattere della completezza e dell'inquadramento scientifico della materia, c'è
però tuta l'efficacia della raccolta di documenti eloquenti esposti con oggettività ed efficacia. Illustra, Gallon, anche i momenti di serenità e la
difficile convivenza con le varie etnie, che dimostrano la capacità
- tipicamente italiana - di costruire le relazioni umane anche in situazioni quasi impossiibli. Sono altresì eloquenti le semplici schede che danno un
resoconto della presenza italiana nei ampi di prigionia, quando, dopo aver redatto un grafico sull'ammontare delle presenze italiane, a proposito
del trattamento si usa una sola parola: bestiale."
(Prof. Vincenzo Centorame)
Il prof. Vincenzo Bianchi ritira il premio in mia assenza
Presentato all'Istituto Universitario Orientale di Napoli
presso il Dipartimento di Studi dell'Europa Orientale, il 15 febbraio 2001
Presentato a
Skopje, presso
dal Prof. Italo Bertoni e dal Prof. Boris Petkovski (14 dicembre 1999)
Il Prof. Italo Bertoni, S.E. Joquim Herbut e gli ultimi due reduci, Vinicio Ballinari e Antonino Muja
In sala: Claudio Miscia, l'ambasciatore Antonio Tarelli e S.E. Kire Stojanov. Il Capo del Governo della Repubblica di Macedonia e S.B. Stefan alla Fiera del Libro di Skopje
(con noi anche il carissimo amico Prof. Boris Petkovski)
Presentato a San Godenzo (Firenze) dall'Associazione Nazionale Carabinieri
in occasione dell'inaugurazione del monumento a Paolo Neri
era presente la vedova dell'appuntato Paolo Neri,
morto in un tentativo di fuga dal campo di concentramento di Demir Capja
L'Emigrazione Italiana nel Grigioni
Gruppo Valtellinesi e Valchiavennaschi nel Grigioni
Coira (Svizzera), 1996
Presentato al Castello di Haldenstein l'8 giugno 1996
dal Dr. Tammaro Maiello, Console d'Italia a Coira
dal Dr. Biavaschi dell'Amministrazione Provinciale di Sondrio
dal Dr. Casoni Ginelli, responsabile delle politiche del lavoro e dell'emigrazione della Regione Lombardia
dal Preside Prof. Gianluigi Garbellini
Premio Speciale Josepin 1998 (Carassai, 12 luglio 1998)
"per aver saputo rappresentare per gli italiani all'estero
un punto di riferimento personale e culturale
nell'attaccamento di un popolo fiero alla propria storia
ai suoi valori e alle sue tradizioni"
SAGGI E STUDI
*
... in continuo ed infinito cammino ...
Dove sta andando il mio italiano?
a cura di Alessandro Ramberti
Fara Editore 2014
ISBN 978-88-97441-51-9
2014: Convento di Fonte Avellana (Pesaro Urbino)
Kermesse: “Dove sta andando il mio italiano” (20-22 giugno 2014)
*
Il battello della poesia
in
Letteratura... con i piedi
a cura di Alessandro Ramberti
Fara Editore 2014
ISBN 978-88-97441-47-2
2014: Convento di Monteripido (Perugia)
“Letteratura… con i piedi” Biblioteca San Matteo degli Armeni (21-23 marzo 2014)
*
Breve storia della comunità italiana di Kerch
in
GLI ITALIANI DI CRIMEA
Nuovi documenti e testimonianze sulla deportazione e lo sterminio
a cura di Luigi Vignoli
Edizioni Settimo Sigillo, 2012
ISBN 978-88-6148-100-8
Questo libro fa seguito al saggio di Giulia Giacchetti Boico e Giulio Vignoli, L’olocausto sconosciuto, Lo sterminio degli Italiani di Crimea (Settimo Sigillo, Roma, 2008).
Nel libro vengono fornite più ampie notizie storiche
sulla presenza italiana in Crimea, nel Mar d’Azov e nel Mar Nero.
Successivamente sono riportate nuove testimonianze dell’olocausto
che non avevano trovato posto nel precedente saggio
o perché ancora sconosciute, o perché i superstiti dello sterminio
si erano rifiutati di fornirle o pubblicarle temendo ancora per se medesimi e per i loro cari
Chiudono il volume brevi accenni agli Italiani tuttora rimasti, dopo la deportazione, in Kazakistan e in Uzbekistan
(Edizioni Settimo Sigillo)
Il libro si compone di quattro Parti e una Appendice.
La Prima Parte, del diplomatico Silvano Gallon, fa la storia degli Italiani di Crimea in base ai documenti da lui trovati nell’Archivio del Ministero degli
Esteri.
La Secondo Parte, di Giulia Giacchetti Boiko, raccoglie ed illustra 21 nuove testimonianze del loro olocausto . La Terza, di don Edoardo Canetta, professore presso l’Università Eurasiatica di Astanà, capitale del Kazakistan,
parla dei superstiti alla deportazione e allo sterminio, rimasti in Kazakistan.
La Quarta, del giornalista della RAI TV Tito Manlio Altomare, approfondisce e illustra i documenti da lui rinvenuti nei gulag del Kazakistan.
L’Appendice accenna ai nostri connazionali spostatisi poi in Uzbekistan dopo la deportazione in Kazakistan.
Insomma un libro di grande interesse, ineludibile per chi vorrà conoscere questa pagina vergognosa del comunismo, ignota e ignorata in Italia
(Giulio Vignoli, già professore di Diritto Internazionale nell’Università di Genova, autore di numerosi studi sulle minoranze italiane in Europa).
D’accordo, è senza dubbio più facile beccarsi il mal d’Africa che il mal di Crimea.
Ma le autorevoli firme che si susseguono in questo libro hanno sicuramente un altro elemento in comune oltre alla serietà, alla competenza e all’esperienza diretta. A parte l’amica Giulia Giacchetti Boico, che le sofferenze delle persecuzioni e della deportazione le ha direttamente vissute in famiglia, tutti gli altri
sono venuti a conoscenza – talvolta in maniera casuale – di una storia tanto tragica quanto umanamente coinvolgente al punto da rimanerne
catturati. Attorno a questa vicenda, certamente poco nota ma in alcuni casi volutamente dimenticata, si è così creato un piccolo gruppo di persone sensibili e volenterose che si sta dando da fare in tutti i modi.
L’obiettivo di questo sforzo comune, che ha dato vita all’ottimo saggio che vi apprestate a leggere, è sintetizzabile in due concetti:
riportare alla luce un pezzo di storia dimenticata e dare un futuro al desiderio di italianità di alcune centinaia di persone,
per lo più concentrate nella città di Kerch, proprio all’imboccatura dell’istmo che collega il mar Nero col mar d’Azov.
Desiderio di italianità in tutti e aspirazione (peraltro legittima) in parte di loro ad ottenere la cittadinanza italiana . Un’aspirazione che finora – e se ne parla abbondantemente in questo libro – sta incontrando grandissime difficoltà a concretizzarsi,
sia per la scarsissima collaborazione delle autorità italiane e ucraine, sia perché i documenti per la ricostruzione dell’albero genealogico sono di
difficile reperimento. Un desiderio di italianità che si manifesta in silenzio, giorno per giorno, e in tanti modi diversi.
E’ la signora Giulia, che nonostante i problemi di salute tiene corsi di italiano gratuiti in una stanzetta presa in affitto a spese dell’associazione
Cerkio degli italiani di Crimea
(senza alcun aiuto o contributo ufficiale dalla ricca madrepatria) e che continua imperterrita a raccogliere testimonianze sulla deportazione
e a cercare documenti che attestino le origini italiane dei superstiti;
sono i ragazzi, che imparano la lingua dei loro nonni e che studiano non solo per sé stessi, per il loro futuro di giovani europei e per amore della
nostra cultura, ma anche per mantenere viva una conoscenza scritta e soprattutto orale che ormai sta scomparendo;
sono gli anziani, che l’Italia non l’hanno mai vista e il cui sogno più grande, prima di morire, sarebbe quello di poterci mettere piede magari
tornando nei paesini, quasi tutti sulla costa pugliese, dai quali all’inizio dell’Ottocento partì la migrazione verso la Crimea;
sono le donne, che pur nella penuria alimentare di una crisi permanente, si tramandano testardamente da quasi due secoli di madre in figlia
(e neanche i Gulag l’hanno avuta vinta!) le ricette della cucina italiana per custodire attraverso le orecchiette con le cime di rapa o le torte salate un
po’ di sapori di casa; è tutta la comunità, che in occasione delle feste nazionali o religiose (italiane, non ucraine) si riunisce per cantare “Fratelli
d’Italia” e “Va, pensiero” e per pregare, e che il 29 gennaio di ogni anno si dà appuntamento sul molo di Kerch
per ricordare con una cerimonia semplice e commovente la deportazione di massa del 1942 di tutti i nostri connazionali e dei loro familiari;
ed è la stessa comunità che in un mondo dove tutti sono di religione ortodossa ha riscattato dal Comune e rimesso a posto a proprie spese l’unica
chiesa cattolica della città, costruita dagli italiani nel 1840, che durante il comunismo era usata come palestra,
una parrocchia multinazionale perché alle messe ora assistono anche i cattolici delle comunità russa, polacca, tedesca e ucraina.
Questo è il desiderio di italianità, l’aggrapparsi a tutto pur di non smarrire la propria identità e al contempo per rendere onore ai propri cari, morti di fame, di freddo e di fatica nei Gulag della steppa kazaka.
Una tenacia che ancora una volta, come già avvenuto a suo tempo coi profughi istriani, giuliani e dalmati e più recentemente coi connazionali cacciati dalla Libia, si è dovuta scontrare con l’indifferenza e il fastidio dell’Italia ufficiale.
Con due enormi svantaggi aggiuntivi: il primo, che i deportati dalla ex Jugoslavia e dalla Libia almeno in Italia ci sono arrivati,
mentre gli italiani di Crimea dopo lo stalinismo al massimo sono tornati dal Kazakhistan sulle rive del mar Nero (a mani vuote, naturalmente);
il secondo, che i nostri amici di Kerch non sono ancora riusciti a far riconoscere la propria italianità, né dall’Italia né dalle autorità ucraine.
Nella ricostruzione del loro stato di famiglia c’è un buco di almeno una generazione.
Il giorno della deportazione vennero infatti sequestrati tutti i loro documenti, mai più restituiti, e sono davvero in pochi ad aver conservato in tutti
questi anni, di nascosto, qualche pezzo di carta che attesta la loro discendenza.
Dopo un viaggio di oltre due mesi ammassati come animali da macello in un treno merci, con qualche sosta – e non tutti i giorni – per i bisogni
corporalie per ricevere le misere razioni di cibo (e per buttare e abbandonare nella neve i cadaveri di chi non ce l’aveva fatta),
quando i superstiti di questo allucinante viaggio di ottomila chilometri a temperature fra i 30 e i 40 gradi sottozero
furono scaricati un po’ alla volta nella steppa era davvero finita.
La rieducazione, infatti, non passava soltanto attraverso i lavori forzati.
Dalle menti di questi poveri sventurati doveva sparire qualunque traccia delle proprie origini.
Anzi, molti furono obbligati a russificare le loro generalità tanto che i circa 300 deportati che anni dopo trovarono la forza,
il coraggio e le risorse per tornare in Crimea si ritrovarono in una situazione kafkiana: c’erano persone con nome e cognome russo che di nascosto , perché era pericoloso, parlavano italiano tra loro; altri, invece, che pur avendo conservato le generalità italiane non erano più in grado di esprimersi
nella nostra lingua perché il padre era morto nei campi di lavoro e la madre – russa o ucraina – l’italiano non lo conosceva e non aveva potuto
insegnarglielo;o ancora, situazione frequentissima, donne col marito italiano rimaste vedove che si risposavano con uomini di altre nazionalità , coi figli di primo letto che acquisivano il cognome – non italiano – del secondo padre, perdendo definitivamente ogni legame identitario.
Da soli, è chiaro, è praticamente impossibile recuperare i documenti mancanti per comprovare le proprie origini.
E allora? Allora l’unico modo per venirne a capo è che la diplomazia italiana scenda finalmente in campo con decisione e in maniera diretta.
Seguendo l’esempio di quel che la Germania ha incominciato a fare sottotraccia già prima della caduta del Muro di Berlino e poi, a viso aperto,
dopo l’89, chiedendo ufficialmente la collaborazione delle autorità locali di tutti i Paesi dell’ex blocco comunista.
Questo libro è già un ottimo punto di partenza. E l’editore Enzo Cipriano, con questo secondo volume, colma un vuoto storiografico davvero
inspiegabile. Silvano Gallon pubblica qui una minuziosa ricerca effettuata spulciando con infinita pazienza tra i faldoni dell’archivio storico della
Farnesina.
Tito Manlio Altomare, che per girare il suo pregevole documentario è stato sia in Crimea che in Kazakhistan (oltre che nella sua Puglia, naturalmente), fornisce documenti e spunti utilissimi solo che si voglia incominciare a cercare. Giulia Giacchetti Boico riporta nuove e importanti testimonianze, che si aggiungono a quelle contenute nella prima edizione e che forniscono la prova incontrovertibile che si trattò di una vera e propria pulizia etnica. Don Edoardo Canetta, infine, non solo ci parla dell’esito delle sue ricerche, davvero uniche, ma poiché vive da anni nella capitale kazaka Astana è un punto di riferimento obbligato per muoversi sul posto. Sarebbe quindi auspicabile che l’ambasciata italiana in Ucraina ponesse ufficialmente il problema, sollecitando la collaborazione delle autorità locali
sia nel reperimento dei dati anagrafici sia nel ritrovamento dei documenti relativi alla deportazione (questi spostamenti di massa venivano infatti
scrupolosamente registrati dalla polizia segreta).
Un lavoro di ricerca incrociato, al quale dovrebbero essere chiamati a fornire il loro supporto:
l’ambasciata italiana in Russia, che nei suoi uffici dovrebbe avere un elenco degli italiani presenti sul territorio ex sovietico e quindi anche in
Crimea negli anni che ci interessanoe che potrebbe inoltre chiedere la collaborazione degli archivi di Stato dell’ex NKVD (Commissariato del Popolo
per gli Affari Interni);l’ambasciata italiana in Kazakistan, per le ricerche sugli internati nei campi di lavori forzati e nei villaggi in cui erano state
disperse le famiglie italiane;gli uffici anagrafici dei Comuni italiani di origine, opportunamente sollecitati dalla Farnesina.
Il proposito, è bene ribadirlo, non è soltanto quello di mettere in condizione chi ne ha diritto di richiedere la cittadinanza italiana.
Anche se, in ogni caso, parliamo di una comunità di poche centinaia di persone, non certo delle centinaia di migliaia di argentini che dopo il default
del 2001realizzarono tutti assieme che “conveniva” diventare italiani.
Nel nostro caso, infatti, lo scopo primario è quello di far sì che gli italiani vengano riconosciuti a tutti gli effetti come minoranza etnica perseguitata
e deportata.Il 26 aprile del ’91 il parlamento sovietico approvò una mozione di condanna delle deportazioni staliniane.
In questo documento venivano espressamente indicate venti nazionalità da riabilitare, seguite dalla dicitura “e altre”.
Purtroppo quella italiana non era compresa tra le venti citate, anche perché oggettivamente a fronte di deportazioni etniche che hanno riguardato
centinaia di migliaiae in alcuni casi addirittura milioni di individui, i circa 2000 italiani di Crimea sono numericamente irrilevanti.
E così, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e l’assegnazione del territorio all’Ucraina, nel ‘92 il parlamento della regione autonoma di Crimea
fece propria la risoluzione sovietica riconoscendo a partire da quella lista le minoranze etniche locali deportate: tartari, tedeschi, greci, armeni e
bulgari. Tanto che a Kerch è stato persino costruito un monumento che indica espressamente queste cinque nazionalità perseguitate.
Ma quella italiana – che per i sovietici rientrava tra le “altre” – per la Crimea, se qualcuno non glielo ricorda con tanto di documenti alla mano,
semplicemente non esiste.
Va anche detto che gli appartenenti alle minoranze deportate hanno bussato solo in minima parte alla madrepatria di origine. La stragrande maggioranza di loro non ha infatti alcuna intenzione di andar via dalla Crimea, sradicandosi per una seconda volta. A loro bastano i piccoli benefici economici derivanti da questo riconoscimento (un modesto aumento della pensione, sconti sui medicinali e sui trasporti,esenzione dalle tasse universitarie, colonie estive gratuite per i bambini, sostegno economico per il ritorno in Crimea di chi ancora vive nei luoghi della deportazione, ecc.) ma soprattutto, ed è la cosa alla quale tengono comprensibilmente di più, possono andare in giro a testa alta, rispettati da tutti per quel che hanno dovuto sopportare. E’ stato abbondantemente spiegato da Giulio Vignoli nel precedente libro, L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli italiani di Crimea,
libro che per primo ha scoperchiato questo vergognoso vaso di Pandora, come l’Italia ufficiale abbia costantemente voltato le spalle alla nostra
piccola comunità di deportati.
Vignoli, che cura anche questo secondo e nuovo libro, è il fondatore, assieme a Giulia Giacchetti Boico, dell’associazione Cerkio
e da diversi anni con Giulia è l’instancabile animatore di tutte le iniziative in difesa e a sostegno dei nostri connazionali.
Già ai tempi di Gorbaciov gli italiani di Crimea avevano preso coraggio uscendo allo scoperto e contattando la nostra sede diplomatica a Mosca.
Non ottennero alcuna risposta. Quando nel ’91 è crollata l’Unione Sovietica e l’Ucraina è diventata indipendente, si sono rivolti all’Ambasciata
italiana di Kiev.
Da allora sono passati più di vent’anni, ma i segnali di attenzione sono stati pochissimi: quattro borse di studio; un certo numero di libri in
italiano, regalati dall’Istituto Italiano di Cultura di Kiev all’associazione Cerkio; la visita di un gruppo di politici pugliesi e successivamente di una
delegazione di parlamentari italianie anche di un ambasciatore, con abbracci, lacrimucce e una montagna di promesse cadute nel vuoto.
Gli unici a muoversi, finora, sono stati i privati, che hanno mostrato un grande slancio e tanto affetto per questa nostra piccola comunità
dimenticata. Singoli cittadini, con donazioni e ricerche negli archivi anagrafici e nelle diocesi delle città italiane di origine;
la società Dante Alighieri, i cui primi contatti con gli italiani di Crimea risalgono al 1993 con l’istituzione di un comitato a Kerch,
Comitato che ora non esiste più ma che sarà presto ricostituito;
Paolo Rausa, che con l’associazione regionale dei pugliesi di Milano si batte per il riconoscimento della cittadinanza e dello status di minoranza
deportata;il Comitato Tricolore del Veneto, col suo presidente Massimo Mariotti, che nel 2009 invitò cinque ragazzi per un soggiorno di tre
settimane a Verona; onlus come “L’Uomo libero” di Walter Pilo, che da diversi anni invia periodicamente pacchi dono e progetta l’istituzione di una
cattedra di Lingua e Letteratura italiana all’Università di Kerch.
Nel 2011 sembrava essere finalmente arrivata la svolta: cinque borse di studio trimestrali per venire a Perugia, all’inizio del 2012, a studiare italiano
all’Università per Stranieri. A Kerch non credevano ai loro occhi.
Potete quindi immaginare la delusione, quando a un mese dalla partenza e dopo aver già comprato i biglietti aerei per l’Italia a costo di sacrifici
enormi (lo stipendio medio è di circa 100 euro al mese, per un solo biglietto non rimborsabile ce ne erano voluti quasi 400)
i cinque ragazzi hanno ricevuto una lettera ufficiale di scuse con la quale la Farnesina annunciava, dispiaciuta,
il differimento di un anno delle borse di studio “per ragioni di ristrettezze di bilancio”.
A questo punto si è messa in moto una catena di solidarietà commovente, che ha consentito ugualmente ad Anna, Igor, Sergii, Caterina e Vladimir di
venire in Italia a dispetto della crisi economica. I Lions di Napoli, mobilitati dal professor Giuseppe Nigro del club Camaldoli, hanno avviato una
raccolta fondi che ha garantito la copertura delle spese di viaggio, di vitto e di alloggio.
Dal canto suo, mostrando subito una grande sensibilità, la professoressa Stefania Giannini, rettore dell’Università per Stranieri di Perugia , ha proposto e ha ottenuto la rinuncia da parte dell’ateneo al pagamento delle tasse di iscrizione e di frequenza, consentendo così un risparmio
decisivo.
Ma ci sono altre due significative novità da segnalare, che lasciano ben sperare in un futuro decisamente più roseo.
La prima, viene dall’impegno dei Lions dell’Italia centrale e del suo governatore, generale Franco Fuduli,
a raccogliere fondi che serviranno all’apertura di una casa della cultura italiana a Kerch, dove i nostri amici si potranno riunire per studiare italiano,
per seguire i programmi televisivi della Rai e per allestire mostre e convegni sulla deportazione.
La seconda, importantissima, alla quale tutta la comunità italiana in Crimea guarda con grande speranza, è l’arrivo all’inizio del 2012 del nuovo ambasciatore a Kiev, Fabrizio Romano, già capo dell’Unità di Crisi della Farnesina. Quindi un diplomatico abituato a occuparsi degli italiani in difficoltà in giro per il mondo, ma soprattutto una persona sensibile che ha subito preso a cuore questa complessa problematica, come mostra anche la lettera di amicizia e di incondizionato appoggio inviata all’associazione Cerkio nello scorso mese di gennaio, in occasione del 70° anniversario della deportazione. In conclusione, c’è ancora tanto da fare. Ma solo rispetto a un anno fa oggi le condizioni sono notevolmente migliorate.
E i motivi e i presupposti per restituire la dignità della memoria e il senso di appartenenza a una comunità prima perseguitata e poi ignorata ci sono
tutti. Basta impegnarsi. Ve ne convincerete anche voi, addentrandovi in questa lettura appassionante.
(Prefazione di Stefano Mensurati)
Presentato a Gorizia all'VIII Festival Internazionale della Storia (17 - 20 maggio 2012)
Giulio Vignoli, Giulia Giacchetti-Boico e Stefano Mensurati
Presentato a Roma nella Galleria del Primaticcio di Palazzo Firenze della Società Dante Alighieri (11 giugno 2012) Dopo il saluto del Segretario Generale della Dante Alighieri Dr. Alessandro Masi,
sono intervenuti il Presidente della Dante Alighieri Ambasciatore Bruno Bottai,
il Prof. Giulio Vignoli, Giulia Giacchetti-Boico, Presidente dell'Associazione di Kerch "Cerkio", ed il sottoscritto
L'Ambasciatore d'Italia a Kiev, Fabrizio Romano, è intervenuto in collegamento skype
Ha moderato il Dr. Stefano Mensurati, Vice Direttore RadioUno Rai
Con Giulio Vignoli e Giulia Giacchetti
l'Icona prezioso dono di Giulia
*
Il vice-consolato d'Italia a Nish ed i lavori ferroviari (1884-1888)
in
I binari che ci hanno portato già una volta in Europa
Società Dante Alighieri Nis (Serbia), 2004
(prima edizione)
ISBN 86-85227-04-6
*
* Il vice-consolato d'Italia a Nish ed i lavori ferroviari (1884-1888)
* Padre Cesare Tondini De'
Quarenghi e
in
I binari che ci hanno portato già una volta in Europa
Società Dante Alighieri Nis (Serbia), 2006
(seconda edizione, riveduta, corretta ed ampliata)
ISBN 86-85227-04-6
XXIX° Premio Internazionale Emigrazione (Pratola Peligna, 2005)
2° Premio SAGGISTICA
a
Ritiro del premio a Pratola Peligna
Presentato a Nis
A Nis con la prof.ssa Presidente della Dante Alighieri di Nis ed i rappresentanti della Chiesa Ortodossa di Nis
*
Nicola Ricciotti e Frosinone
* Il monumento a Nicola Ricciotti: una speranza durata 38 anni
* L'asilo comunale infantile "Nicola Ricciotti"
ed altre iniziative alla memoria del martire ciociaro
in:
Teretum
Accademia Teretina - Frosinone, 2006
*
Lardelli, un grigionitaliano console d’Italia a Coira
Quaderni grigionitaliani 3/93
Pro Grigioni Italiano, Coira 1993
ISBN 88-85905-14-5
Enrico Terracini – L’uomo e il console
Quaderni grigionitaliani 4/94
Pro Grigioni Italiano, Coira 1994 ISBN 88-85905-19-6
Il consolato d’Italia a Davos
Quaderni grigonitaliani 2/96
Pro Grigioni Italiano, Coira 1996 ISBN 88-85905-25-0
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Il Consolato d’Italia
e
in:
Italianità a Coira
Pro Grigioni Italiano, Coira 1993
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Incontro Poetico d'Europa
Tutti gli atti della Ia e IIa Edizione dell'"Incontro Poetico d'Europa": premi, poesie, fotografie
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